Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il fuoco di Acrab di Glenn Cooper. Il romanzo è pubblicato in Italia da Nord con un prezzo di copertina di 14,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Il segno della croce: trama del libro
Intorno a loro, si apre l’infinito deserto di ghiaccio e vento dell’Antartide. Dopo ore di faticoso cammino, il gruppo di uomini raggiunge il punto segnato sulla mappa. E lo individuano: l’ingresso di una caverna scavata decenni prima da chi li ha preceduti in quel continente disabitato. Quando entrano, in religioso silenzio, si trovano davanti un museo ideato per conservare reperti che il mondo crede perduti per sempre. Ma quegli uomini sono arrivati lì per due oggetti soltanto. E adesso li stringono tra le mani. Ne manca ancora uno, poi l’alba di una nuova era sorgerà sul mondo. In un piccolo paese dell’Abruzzo, un giovane sacerdote si alza dal letto. Il dolore è lancinante. La fasciatura intorno ai polsi è intrisa di sangue. Con cautela, il prete scioglie le bende. Le sue suppliche non sono state esaudite, le piaghe sono ancora aperte. Il sacerdote chiude gli occhi e inizia a pregare. Prega che gli sia risparmiata quella sofferenza. Che gli sia data la forza di superare quella prova. E che nessuno venga mai a conoscenza del suo segreto. Una ricerca iniziata quasi 2000 anni fa e giunta solo oggi a compimento. Un’ossessione sopravvissuta alla guerra che segnerà Il destino di tutti noi. Una storia la cui parola «fine» sarà scritta col sangue…
Approfondimenti sul libro
Il segno della croce è in vendita anche in formato eBook al prezzo di euro 9,99.
Palestina, Siria, 327 d.C.
Il sole implacabile di Gerusalemme aveva reso la terra dura come pietra. Nonostante il caldo torrido del mezzogiorno, gli operai dalla pelle color cuoio sollevavano e abbassavano i pesanti picconi, senza osare interrompere la cadenza dei colpi.
La donna era ferma lì vicino e osservava ogni movimento, ascoltando il suono metallico del ferro contro il terreno compatto. Poi andò a sedersi all’ombra della sua tenda, in cima a un cumulo livellato di detriti che dominava gli scavi. Alcuni soldati dal volto severo circondavano l’area formando un anello d’acciaio. Non erano comuni legionari, bensì una coorte di centurioni scelti dall’imperatore in persona. In verità, la donna non correva nessun pericolo. La maggior parte degli abitanti di Gerusalemme sosteneva ogni sua iniziativa ed era grata per la generosità con cui soccorreva i poveri. Ma non era ammessa nessuna negligenza: scontentarla avrebbe potuto generare gravi conseguenze. Perché quella donna era la madre dell’imperatore.
Flavia Giulia Elena Augusta.
Di umili origini, era andata in sposa a Costanzo Cloro, cui aveva dato un erede dal destino ben più glorioso di quello del padre: Costantino il Grande, l’uomo capace di sfidare secoli di tradizione romana, abolendo il culto delle divinità pagane per abbracciare il cristianesimo.
In quel processo di conversione, il ruolo di Elena era stato determinante.
Il suo amore per la nuova religione era tale che, alla soglia degli ottant’anni – età in cui la maggior parte delle matrone si faceva trasportare in lettiga da una stanza all’altra delle confortevoli ville romane –, l’energica Elena si recava in pellegrinaggio in terre lontane alla ricerca delle reliquie di Cristo.
Quand’era giunta col suo seguito nella città santa di Gerusalemme, aveva suscitato lo stupore della popolazione locale stazionando in mezzo alla gente nei mercati e nei luoghi di culto, per raccogliere le indicazioni tramandate dai loro antenati sull’esatta ubicazione del sepolcro di Cristo e della collina del Golgota, dov’era avvenuta la crocifissione. La tradizione orale era ben consolidata. In una terra così antica e ricca di sapienza, tre secoli non erano che un granello di tempo. Dopo due anni, la spedizione stava per concludersi e il successo era strabiliante: Elena aveva fatto edificare una chiesa a Betlemme, nel punto in cui riteneva fosse nato Gesù, e un’altra sul Monte degli Ulivi. Eppure quelle scoperte impallidivano a confronto dell’ardua impresa sul Golgota, che la maggior parte degli anziani indicava anche come il luogo in cui era stato sepolto Gesù. Due secoli prima, l’imperatore Adriano aveva avviato la ricostruzione di Gerusalemme, distrutta a seguito delle violente rivolte dei giudei, e aveva ricoperto di terra la tomba di Cristo, innalzando un grande tempio dedicato a Venere. Quindi Elena aveva dovuto far smantellare le vestigia pagane, un blocco dopo l’altro.
Era stato Macario, il vescovo di Gerusalemme e consigliere spirituale di Elena, a scegliere il sito degli scavi una volta che il terreno era stato ripulito. Una squadra di uomini armati di picconi e pale, per la maggior parte siriani e greci, guidati da un mellifluo siriano di nome Safar, aveva poi riportato alla luce una vecchia tomba giudea scavata nella roccia. Safar aveva aiutato Macario a scendere la scala a pioli calata nella fossa e, una volta tornato da Elena, l’anziano vescovo aveva annunciato tra le lacrime che si trattava proprio della tomba del Messia. Poche settimane più tardi, in una località vicina, erano state dissotterrate delle travi di legno erose dal tempo e pietrificate. Issate fuori della fossa, erano state esaminate dalla stessa Elena: l’imperatrice e il vescovo avevano dichiarato con gioia che si trattava delle croci di Cristo e dei due ladroni. Ma qual era quella del Salvatore?
Macario aveva suggerito il modo per dirimere la questione.
Alcuni frammenti di ogni croce erano stati portati al capezzale di una donna prossima alla morte, divorata da un male incurabile al ventre. Le avevano messo in mano il primo pezzetto di legno. Non era accaduto nulla. E anche il secondo frammento non aveva sortito nessun effetto. Al terzo tentativo, però, era accaduto il miracolo: mentre stringeva la scheggia, il colorito della moribonda era passato dal giallo al rosa e il gonfiore del ventre era svanito. Infine la donna si era messa a sedere – cosa che non riusciva più a fare da molto tempo – e aveva sorriso.
Avevano trovato la Vera Croce.
A quel punto a Elena restava solo un’ultima ricerca prima di poter fare ritorno a Roma con le reliquie. Gli scavatori avevano il compito di trovare i chiodi della crocifissione.
«Saranno tre o quattro?» chiese a Macario.
Il vescovo si sedette accanto a lei nella tenda. «Non saprei, mia signora. Alcuni carnefici preferivano usare un chiodo diverso per ogni caviglia. Altri ne usavano uno solo per trafiggerle insieme.»
«Mi auguro che facciano in fretta», disse l’imperatrice. «Sono anziana.»
Il vescovo rise con deferenza. L’aveva sentita ripetere spesso quelle parole.
Dentro la fossa, nascosto alla vista, Safar guardava i suoi uomini raschiare la terra sotto il punto in cui avevano individuato la Vera Croce. Il suo occhio attento notò qualcosa. Spinse da parte l’operaio più vicino e continuò il lavoro col suo maleppeggio. Scavando in ginocchio, portò alla luce un grosso chiodo, annerito dall’ossidazione. Era lungo quanto una mano, di forma quadrangolare, con la testa piatta intatta. Stava per estrarlo dal terreno, quando il suo sguardo si posò su una piccola macchia nera lì accanto: poco dopo ammirava un secondo chiodo, più corto e con la punta rotta. Poi uno scavatore distante alcuni passi da lui lo chiamò: ne aveva trovato un altro. Mentre Safar lo stava ripulendo, si accorse di un terzo punto nero nel terreno. Ben presto emerse dalla terra il quarto chiodo. La testa era spezzata.
«La signora sarà contenta, vero?» domandò l’operaio a Safar.
«Ne sono certo», rispose il siriano, alzando gli occhi al cielo pallido. «Il suo lavoro è terminato. Adesso se ne andrà.»
«Ma ci darà delle monete?»
«Mi darà una borsa di monete e, se terrai la bocca chiusa, avrai anche tu la tua parte.»
«Su cosa dovrei tenere la bocca chiusa?»
«Lei riceverà solo tre chiodi.»
«E il quarto?»
«Quello è mio», affermò Safar, puntando lo sguardo sull’ultimo, quello con la testa spezzata. «È da troppo tempo che sopporto di lavorare sotto il giogo di una donna.»
«Ma è un’imperatrice.»
«Resta sempre una donna. Questa è la mia ricompensa per l’oltraggio subito. E poi è rovinato, e lei darà la colpa a noi. Lo venderò. Se farai la spia, morirai povero.»
Safar usò il piccone per rimuovere la terra intorno al quarto chiodo, fino a che non riuscì a estrarlo. Lo serrò con impazienza tra le dita per soppesarlo, ma subito allentò la presa. Sentiva un formicolio al polso, un calore fastidioso, così se lo infilò nella tasca anteriore della veste.
Poi uscì dalla fossa e corse verso la tenda di Elena. «Safar ha trovato i chiodi, mia signora!» annunciò.
A quella notizia, il volto rugoso di Elena s’illuminò. «Quanti? Tre o quattro?»
Safar le rivolse un sorriso sdentato. «Tre, mia signora. Solo tre.»
2
Asunción, Paraguay, 1955
Era un ragazzino di undici anni, timido e sensibile, e quando il padre andava in collera si spaventava tanto da alimentare ancora di più quella figura imponente.
«Sii uomo, maledizione! Non piagnucolare!»
Suo padre era come un vulcano: quando la pressione interna superava il livello di guardia, esplodeva. E, siccome Otto Schneider viveva in totale isolamento, a subirne le conseguenze erano sempre la moglie e il figlio. Tuttavia, su dieci volte in cui si scagliava contro il piccolo Lambret per qualche disobbedienza reale o immaginaria, lo picchiava una volta sola. Quel rapporto di dieci a uno era così immutabile che il ragazzino sapeva con esattezza quando stava per prenderle e si preparava mentalmente. La madre non riusciva a sopportare quelle punizioni e, ogni volta che incombevano, fuggiva in lacrime dalla stanza. Tornava solo a cose finite, per consolare il figlio con qualche bacio e una fetta di torta. Mentre quand’era lei a ricevere uno schiaffo o peggio, il ragazzo ricambiava la sua gentilezza portandole dei dolci.
«Lo odio.»
«Non è colpa sua, Lambret. Lo devi amare e rispettare. È frustrato. Era un generale, un uomo importante. Adesso invece è… be’, è tuo padre. Dobbiamo essere comprensivi.»
Il ragazzo non andava a scuola, perché il padre non voleva che imparasse lo spagnolo, da lui considerato una lingua inferiore, corrotta. Inoltre meno persone sapevano che la famiglia che viveva in quella modesta casa era tedesca, meglio era. In Germania la madre insegnava lingue, quindi era lei a tenere i contatti col mondo esterno. Impartiva lezioni al figlio sei giorni la settimana, per cinque ore consecutive o anche più a lungo, se il padre riteneva che il ragazzino non stesse facendo abbastanza. Così Lambret riceveva la sua dose quotidiana di latino e greco, oltre che di letteratura e cultura tedesca. L’unica materia per cui Otto mostrava interesse era la storia. I travagli e le tribolazioni della razza ariana avevano per lui un’importanza particolare. Suo figlio doveva conoscere la verità, non la propaganda e le fandonie sioniste. Il ragazzino era nato a Berlino alla fine del 1944, quando ormai le sorti della guerra erano segnate. Otto lo aveva chiamato Lambret, «luce della terra» in tedesco antico, per un disperato atto di fede e ottimismo, considerata l’oscurità che stava calando sulla Germania. Riposta nella scrivania dello studio, c’era una fotografia di Himmler che baciava la guancia del bambino.
La scrivania esercitava su Lambret un richiamo irresistibile. Durante gli anni vissuti in quella casa, aveva visto spesso il padre aprire i cassetti chiusi a chiave per estrarne manufatti meravigliosi. Quando chiedeva cosa fossero, l’uomo si rifiutava seccamente di rispondere, finché una volta non gli aveva detto che tutti quei tesori un giorno sarebbero stati suoi.
«Quando?»
«Quando sarò morto. Abbastanza presto, se l’avranno vinta quei bastardi.»
Lambret non aveva idea di chi fossero i bastardi, ma nel suo cuore parteggiava per loro.
Negli ultimi tempi, di pomeriggio, mentre il padre dormicchiava e la madre preparava la cena, incapace di resistere alla curiosità, il ragazzino s’intrufolava nello studio per cercare la chiave dei cassetti. La stanza era grande e offriva molti nascondigli. Era stipata di libri, posacenere, portapipe, boccali di birra ornamentali e cianfrusaglie varie. Non poteva neanche escludere che il padre tenesse la chiave sempre con sé. Ma quello non lo scoraggiava. Non dedicava mai più di cinque minuti a quella ricerca furtiva. Non osava nemmeno pensare a cosa sarebbe accaduto se fosse stato scoperto a rovistare nella stanza proibita.
Quel giorno fece l’ennesimo tentativo. Tenendo d’occhio l’orologio a pendolo sulla mensola del camino per non perdere la cognizione del tempo, il ragazzino guardò dentro e sotto ogni boccale di birra, sebbene l’avesse già fatto altre volte. Il cane di un vicino abbaiò. L’orologio batté la mezz’ora: gli venne in mente che non lo aveva mai controllato. Accostò una sedia al camino e, con cautela, sollevò la campana di vetro che lo proteggeva, appoggiandola poi sulla scrivania. Sulla base di ottone c’erano un’iscrizione – una dedica al padre da parte del suo reggimento – e una croce uncinata intarsiata con piccole pietre rosso rubino. Spostò l’orologio per guardare sotto ed eccola lì. La chiave della scrivania, infilata in un laccio di cuoio.
Il cane abbaiò di nuovo.
Tremando, il ragazzo afferrò la chiave e la infilò nella serratura del primo cassetto in alto. Mentre la girava, udì con soddisfazione il rumore sordo del meccanismo che sbloccava i cassetti laterali. In lontananza sentì la madre posare sul fornello una pentola pesante. Ormai gli restava poco tempo per portare a termine la sua esplorazione. Si concentrò sull’ultimo cassetto in basso a destra, da dove aveva visto estrarre un manufatto che aveva acceso la sua immaginazione. All’interno c’era un unico oggetto lungo, avvolto in un drappo di velluto blu.
Era pesante.
Si sedette sulla sedia del padre, appoggiò l’involto sulla scrivania e lo aprì con estrema cura.
Era esattamente come la ricordava.
Una cuspide di lancia: dalla punta acuminata fino all’innesto cavo dell’asta misurava circa sessanta centimetri, con un diametro massimo di cinque centimetri. L’acciaio era scuro, quasi nero. Lambret era stupefatto dalla sua pesantezza e dalle decorazioni: una sottile lamina d’oro battuto, così lucente da ferire gli occhi, rivestiva il tronco. E poco più sopra, incastonata al centro dell’acciaio, c’era una minuscola punta nera, fissata in quattro punti diversi da strette spirali di filo d’argento. La lancia sembrava l’incarnazione stessa della forza militare: mentre la reggeva tra le mani, il ragazzino riusciva quasi a percepirne il potere distruttivo.
«Cosa stai facendo?»
Lambret fece quasi cadere la lancia.
Il padre era in piedi sulla soglia, scalzo.
«Mi dispiace», balbettò.
«Lo sai che dovrò punirti, vero?»
Il ragazzino era certo che sarebbe stato picchiato, e con durezza. Ma c’era qualcosa di strano. Date le circostanze, il padre sembrava troppo calmo e quello lo spaventò ancora di più. «Lo so.» Aveva la bocca così secca che le parole gli uscirono a stento.
«Ho sentito il cane abbaiare», disse il padre in tono assente, entrando nella stanza.
Per un breve istante Lambret pensò di difendersi con l’oggetto che aveva tra le mani.
«Sai cos’è?»
«Una lancia?»
«Esatto, una lancia. La punta di una lancia romana. Si tratta di un’imitazione. Sai cosa significa?»
«Che non è vera?»
«Non proprio. Vuol dire che non è l’originale, ma è comunque speciale. Si tratta di una copia della Lancia di Longino, conosciuta anche come Lancia del Destino. Ne hai mai sentito parlare?»
Il ragazzo scosse la testa.
«Longino era il soldato romano che trafisse il costato di Gesù sulla croce. I cristiani credono che la lancia sia sacra.»
«Lo è?»
«Non lo so, ma possiede alcuni poteri. Quella vera, intendo.»
Lambret si sentì incoraggiato dal tono disteso di quella conversazione. Di solito, le punizioni erano precedute da una raffica di grida e imprecazioni. «Dove l’hai presa?»
«Me l’ha donata Heinrich Himmler in persona negli ultimi giorni di guerra. Tu sai chi era, vero?»
«Sì.»
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore statunitense rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Glenn Cooper.
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